La
reboxetina è un farmaco che ho prescritto anch’io. Con uno dei miei pazienti le
altre medicine non avevano funzionato, perciò volevamo provare qualcosa di
nuovo. Prima di scrivere la ricetta avevo letto i dati dei test clinici, e
avevo visto che erano ben strutturati e che i risultati erano in prevalenza
positivi. La reboxetina funzionava meglio di un placebo ed era alla pari con
gli altri antidepressivi con i quali era stata messa a confronto. L’Mhra,
l’agenzia che regolamenta la diffusione dei farmaci e dei prodotti sanitari del
Regno Unito, l’ha approvata. In tutto il mondo, se ne prescrivono milioni di
dosi ogni anno. Doveva essere un farmaco efficace e sicuro. Ne ho parlato brevemente
con il paziente e abbiamo concordato che era la cura giusta da provare, quindi
ho firmato la ricetta.
Ma ci
eravamo sbagliati. Nell’ottobre del 2010 un’équipe di ricercatori è riuscita
finalmente a mettere insieme tutti i dati disponibili sulla reboxetina, presi
sia dai test clinici pubblicati sia da quelli mai apparsi sulle riviste
specializzate. E il quadro che ne è uscito è stato terrificante. Erano stati
condotti sette test in cui il farmaco veniva confrontato con un placebo. Solo
uno, effettuato su 2S4 pazienti, aveva dato risultati nettamente positivi, ed
era stato pubblicato su una rivista scientifica. Ma gli altri sei test,
condotti su un numero di pazienti dieci volte superiore, avevano dimostrato che
la reboxetina non era più efficace di una qualsiasi pillola di zucchero.
Nessuno di quei test era stato pubblicato e non avevo idea che esistessero.
Ma c’è
di peggio. Dai test che confrontavano la reboxetina con altri farmaci è emerso
esattamente lo stesso quadro: tre piccoli studi, su un totale di 507 pazienti,
dimostravano che i farmaci davano tutti gli stessi risultati, ed erano stati
tutti pubblicati. Ma i dati su uno studio con 1.6S7 partecipanti erano stati
ignorati: dimostravano che i pazienti che prendevano la reboxetina stavano
peggio di quelli che usavano altre medicine. Come se non bastasse, c’erano
anche gli effetti collaterali. Dagli studi apparsi sulle riviste specializzate
sembrava che il farmaco funzionasse, ma quando abbiamo visto quelli non
pubblicati abbiamo scoperto che c’erano più probabilità che i pazienti ai quali
era somministrata la reboxetina avessero effetti collaterali, smettessero di
prenderla e abbandonassero la sperimentazione proprio a causa di quegli
effetti.
Avevo
fatto tutto quello che un medico deve fare. Avevo letto gli articoli, li avevo
valutati criticamente, ne avevo discusso con il paziente e avevamo deciso
insieme sulla base delle prove a nostra disposizione.
Secondo
il materiale pubblicato, la reboxetina era un farmaco efficace e sicuro. In
realtà, non era meglio di un placebo e faceva più male che bene. In pratica,
avevo danneggiato il mio paziente, semplicemente perché i dati negativi sul
farmaco non erano mai stati pubblicati.
In quel
caso, nessuno aveva infranto la legge. La reboxetina è ancora sul mercato e il
sistema che ha permesso che questo accadesse è rimasto immutato, per tutti i
farmaci, in tutti i paesi del mondo. I dati negativi spariscono in tutti i
settori della medicina. Le istituzioni e le associazioni professionali che
dovrebbero censurare certi comportamenti non lo fanno. Questi problemi sono
sempre stati tenuti nascosti al pubblico perché sono troppo complessi da
capire. Per lo stesso motivo non sono mai stati del tutto risolti dai politici,
e quindi richiedono una spiegazione più dettagliata. Le persone di cui
pensavamo di poterci fidare ci hanno tradito, e dato che per risolvere un
problema bisogna capirlo bene, c’è una serie di cose che tutti dobbiamo sapere.
L’efficacia
dei farmaci viene verificata da quelli che li fabbricano, con test clinici mal
progettati e condotti su un piccolo numero di pazienti poco rappresentativi, e
analizzati con tecniche truccate che enfatizzano solo i benefici. Ovviamente,
questi test tendono a creare risultati favorevoli al produttore. Quando
emergono dati non graditi, alle aziende è riconosciuto il diritto di tenerli
nascosti a medici e pazienti, quindi a noi arriva un quadro falsato dei veri
effetti di qualsiasi medicina. Le agenzie di regolamentazione leggono la
maggior parte dei risultati dei test clinici, ma solo quelli condotti nelle
prime fasi di sperimentazione sul farmaco, e comunque non li danno ai medici e
ai pazienti e non li rendono noti neanche alle altre istituzioni governative.
Queste prove falsate vengono poi rese pubbliche e applicate in modo distorto.
Nei loro
quarant’anni di pratica, dalla laurea alla pensione, i medici raccolgono
informazioni dai rappresentanti delle case farmaceutiche, dai colleghi e dalle
riviste specializzate. Ma i loro colleghi possono considerazione i risultati di
192 test, che mettevano a confronto una statina con un’altra o con un
trattamento diverso. I ricercatori hanno scoperto che era venti volte più
probabile che gli studi finanziati dall’industria dessero risultati positivi.
Questa è
già una notizia preoccupante, ma riguarda i singoli studi. Proviamo a
considerare indagini più sistematiche. Nel 2003 ne sono uscite due. Entrambe
avevano preso in esame tutti gli studi resi noti fino ad allora
sull’associazione tra finanziamenti dell’industria e risultati positivi, e avevano
scoperto che era quattro volte più probabile che i test finanziati dalle case
farmaceutiche dessero risultati positivi. Un’indagine del 2007 ha analizzato
gli studi compiuti nei quattro anni successivi e ne L’efficacia dei farmaci
viene verificata da quelli che li fabbricano, con test clinici condotti su un
piccolo numero di pazienti essere pagati dalle case farmaceutiche, spesso in
segreto, e così anche le riviste. A volte perfino i gruppi di pazienti sono
pagati. E infine gli articoli accademici, che tutti considerano obiettivi,
spesso sono scritti da persone che lavorano per l’industria del farmaco. A
volte intere riviste scientifiche sono di proprietà di un’azienda. A peggiorare
la situazione c’è il fatto che per quanto riguarda alcune delle questioni più
importanti della medicina non abbiamo idea di quale sia la cura migliore,
perché nessuno ha interesse a condurre i test cinici.
La
cura migliore
Nel 2010 un gruppo di ricercatori di Harvard e dell’università di Toronto ha
preso tutti i test clinici effettuati sulle cinque categorie di medicinali più
importanti- antidepressivi, farmaci per l’ulcera e così via -e ha considerato
due elementi chiave: se i risultati erano positivi e se gli studi erano
finanziati dall’industria farmaceutica. Nel complesso ne hanno esaminati 500, e
hanno scoperto che 1’85 per cento degli studi finanziati dall’industria dava
risultati positivi. Nel caso di quelli finanziati con fondi pubblici la
percentuale era del 50 per cento.
Tre anni
prima un altro gruppo di ricercatori aveva esaminato tutti i test pubblicati
sui benefici di una statina. Le statine sono farmaci che abbassano il
colesterolo riducendo il rischio di un infartoe sono prescritti in grandi
quantità. Lo studio ha preso in ha scoperti altri venti. Tutti, tranne due,
dimostravano che i test sponsorizzati dall’industria davano risultati positivi.
Sembra che succeda la stessa cosa con i risultati presentati durante i convegni
accademici. Nel 2004 James Fries ed Eswar Krishnan dellafacoltàdi medicina
dell’università californiana di Stanford hanno analizzato tutti gli estratti
delle relazioni presentate al convegno dell’American college ofrheumatology del
2001, in cui erano stati riportati i risultati di test sponsorizzati
dall’industria farmaceutica, per cercare quanti di quei risultati fossero stati
favorevoli al farmaco dello sponsor. Questa è stata la loro conclusione: “I
risultati di tutti gli studi controllati randomizzati (45 su 45) erano a favore
del farmaco dello sponsor”.
Come
fanno i test clinici sponsorizzati dall’industria a dare quasi sempre risultati
Da sapere Mercato mondiale dei farmaci, considerando i prezzi dei farmaci
all’uscita dalla fabbrica, zon positivi? A volte sono volutamente falsati. Si
può scegliere di confrontare il nuovo farmaco con qualcosa che si sa essere
inefficace (per esempio un medicinale già esistente in una dose inadeguata o un
placebo). Si possono scegliere attentamente i pazienti che reagiranno meglio
alla cura. Si può interrompere il test in anticipo quando i risultati sono buoni.
A volte, le aziende conducono molti test, e semplicemente non pubblicano i
risultati quando vedono che non sono quelli che vorrebbero.
Dato che
i ricercatori sono liberi di nascondere i risultati che vogliono, i pazienti
corrono grossi rischi. Spesso i medici non hanno idea dei veri effetti delle
cure che prescrivono. Questo farmaco funziona veramente bene o mi è stata
tenuta nascosta la metà dei dati? Nessuno può saperlo. Potrebbe uccidere il
paziente? Non si sa. È una situazione molto strana perla medicina, un campo in
cui tutto dovrebbe basarsi su prove documentate. Questi dati vengono tenuti
nascosti a tutti quelli che lavorano nel settore, nessuno escluso. Il National
institute for health and clinical excellence (Nice), per esempio, è stato
creato dal governo britannico per condurre un’analisi attenta e imparziale di
tutte le prove raccolte sui nuovi trattamenti. Eppure non è in grado di
accedere ai dati sull’efficacia di un farmaco che i ricercatori o le aziende
non vogliono rivelare. Anche se deve prendere delle decisioni che riguardano
milioni di persone, legalmente il Nice ha lo stesso diritto di vedere quei dati
di un singolo cittadino.
Quando
un’équipe di ricerca conduce un test su un nuovo farmaco per un’azienda
farmaceutica, ci aspetteremmo che firmi un contratto che prevede l’obbligo di
pubblicare i risultati e che impedisce all’azienda di censurame una parte. Ma,
anche se è risaputo che le ricerche finanziate dall’industria sono falsate,
questo non succede. Al contrario, è assolutamente normale che i ricercatori e
gli accademici responsabili di uno studio firmino un contratto con clausole che
gli impediscono di pubblicare, discutere e analizzare i dati ottenuti senza il
permesso del finanziatore.
È una
situazione così vergognosa che può essere pericoloso perfino parlarne. Nel
2006, sul Journal of the American medical association (Jama), una delle riviste
specializzate più importanti del mondo, è uscito un articolo in cui si
descrivevano i vincoli imposti ai ricercatori nella pubblicazione dei risultati
di test farmaceutici finanziati dalla casa produttrice. Lo studio era stato
condotto dal Nordic Cochrane centre, un istituto con sede in Danimarca,
prendendo *** in esame i test effettuati a Copenaghen e Frederiksberg. I test
erano quasi tutti sponsorizzati dall’industria farmaceutica (98 per cento) e le
norme che regolavano la gestione dei dati erano come al solito tra
l’inquietante e l’assurdo.
In 16
casi su 44, l’azienda aveva il diritto di vedere i dati man mano che
emergevano, e in altri i6 poteva decidere di interrompere lo studio in
qualsiasi momento, per qualsiasi motivo. Questo significa che una casa
farmaceutica può verificare se i risultati vanno contro i suoi interessi e
intervenire in corso d’opera, distorcendoli. E anche se autorizza a portare a
termine lo studio, può sempre decidere di non rendere noti i risultati: c’erano
vincoli sulla pubblicazione in 4o dei 44 test, e in metà dei casi il contratto
specificava che l’azienda era proprietaria assoluta dei dati, doveva approvarne
la pubblicazione finale, o entrambe le cose. Nessuno di questi vincoli era
menzionato negli articoli pubblicati.
Quando è
apparso l’articolo sul Jama, la Lif, l’associazione delle case farmaceutiche
danesi, ha risposto sulla rivista dell’associazione medica danese dicendo di
essere “sorpresa e furiosa per queste critiche e di considerarle assolutamente
infondate”. Ha reclamato un’inchiesta, senza però dire condotta da chi e su che
cosa. Poi ha scritto alla commissione danese che si occupa degli illeciti in
campo scientifico, accusando i ricercatori del Cochrane di scorrettezza. Non mi
è stato possibile vedere la lettera, ma secondo i ricercatori le affermazioni
che conteneva erano molto gravi – erano stati accusati di aver deliberatamente
distorto i dati – anche se vaghe e non documentate.
Eppure l’inchiesta è andata avanti per un anno. Peter Getzsche,
che dirige il Cochrane centre, ha dichiarato al British Medical Journal che
solo la terza lettera della Lif, inviata dieci mesi dopo la sua prima replica,
conteneva accuse specifiche sulle quali la commissione poteva indagare. Due
mesi dopo, l’istanza è stata archiviata. I ricercatori del Cochrane non avevano
fatto niente di scorretto. Ma prima che fossero definitivamente prosciolti, la
Lif ha mandato una copia delle lettere che li accusavano di disonestà
scientifica all’ospedale dove lavoravano quattro di loro e all’azienda che lo
amministrava, e ha inviato lettere simili all’associazione medica danese, al
ministero della salute e al ministero della ricerca scientifica. Gatzsche e i
suoi colleghi si sono sentiti “aggrediti e minacciati” dal comportamento della
Lif, che ha continuato ad accusarli di scorrettezza anche dopo la chiusura
dell’inchiesta.
Un caso da manuale
La paroxetina è un antidepressivo piuttosto comune che appartiene a una classe
di farmaci noti come inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, o
Ssri. E fornisce un buon esempio di come le aziende abbiano approfittato della
poca attenzione dedicata dalla comunità scientifica ai risultati dei test
cinici, trovando scappatoie legali. Per capire come sia possibile, dobbiamo
prima di tutto accennare a un’anomalia del processo di approvazione dei
medicinali. Quando un farmaco viene commercializzato non può essere destinato a
qualsiasi uso: è necessaria un’autorizzazione specifica per ogni tipo di
impiego. Quindi, per esempio, un medicinale può essere autorizzato per il
trattamento del cancro alle ovaie ma non di quello al seno. Questo non
significa che nel secondo caso non funzioni. Può anche essere di efficacia
dimostrata, ma la casa produttrice non si è presa la briga di richiedere
un’autorizzazione formale per quell’uso o non ha voluto affrontare la spesa che
questo comporterebbe. I medici possono decidere di prescriverlo comunque per il
cancro al seno, perché probabilmente funziona ed è sicuramente disponibile
nelle farmacie. Possono farlo legalmente, ma in questo caso si tratta di una
prescrizione off label, cioè per una patologia diversa da quella indicata nel
foglio illustrativo.
Per poter somministrare un farmaco ai bambini è necessaria
un’autorizzazione separata da quella che serve per gli adulti. In tanti casi
questo è comprensibile, perché i bambini possono reagire a una sostanza in modo
molto diverso e quindi è necessario condurre una ricerca separata. Ma ottenere
una licenza per un uso specifico è difficile, richiede un’ampia documentazione
e una serie di studi appositi. Spesso il
percorso è così costoso che le aziende non si prendono la briga di richiedere
l’autorizzazione a usare un farmaco peri bambini, perché si tratta di un
mercato di solito più ridotto. Quindi succede che una medicina autorizzata solo
per gli adulti sia prescritta anche ai bambini. Le agenzie governative addette
ai controlli si sono rese conto del problema e di recente hanno cominciato a
offrire incentivi alle aziende perché conducano più studi e chiedano
formalmente le licenze.
Quando la GlaxoSmithKline (Gsk)
chiese l’autorizzazione per commercializzare la paroxetina per i bambini,
emerse una situazione che scatenò la più lunga inchiesta della storia nella
regolamentazione dei farmaci nel Regno Unito. Tra il 1994 e il 2002, la Gsk
aveva compiuto nove test clinici sull’uso della paroxetina per curare i bambini
affetti da depressione. I primi avevano dimostrato che non comportava alcun
beneficio, ma l’azienda non fece nessun tentativo per informare i medici.e i
pazienti cambiando il foglio illustrativo. Si sospettava da tempo che la
paroxetina potesse aumentare il rischio di suicidio, anche se questo effetto
collaterale è difficile da verificare. Nel febbraio del 2003 la Gsk aveva
mandato spontaneamente all’Mhra una relazione informativa sul rischio di
suicidio provocato dalla paroxetina. Il rapporto era basato sui risultati di
alcune analisi effettuate nel 2002 sui dati negativi emersi da test che
l’azienda aveva condotto dieci anni prima. Secondo la relazione non c’era
nessun aumento del rischio di suicidio. Ma era falsata. All’epoca non si sapeva
che in realtà i dati relativi ai bambini erano stati mescolati con quelli di un
gran numero di adulti.
Nel 2003 la Gsk partecipò a una riunione con l’Mhra per
discutere un’altra questione riguardante la paroxetina. Alla fine
dell’incontro, i suoi rappresentanti presenOltre a prendere una medicina di cui
la casa produttrice conosceva l’inefficacia, i bambini erano anche esposti ai
suoi effetti collaterali bini affetti da depressione. I primi due avevano
dimostrato che non comportava alcun beneficio, ma l’azienda non fece nessun
tentativo di informare i medici e i pazienti cambiando il foglio illustrativo.
Anzi, alla fine dei test, in un documento interno si leggeva: “Sarebbe
commercialmente inaccettabile inserire nel foglio l’affermazione che la sua
efficacia non è stata dimostrata, perché danneggerebbe l’immagine della
paroxetina”. Nell’anno successivo a questo memorandum interno, solo nel Regno
Unito furono firmate 32mila ricette in cui fu prescritta la paroxetina ai
bambini. Negli anni seguenti furono effettuati altri studi, nove in tutto, e
nessuno dimostrò che il farmaco fosse efficace per curare la depressione nei
bambini.
Ma c’è di peggio. Non solo i bambini prendevano una medicina di
cui la casa produttrice conosceva l’inefficacia; erano anche esposti ai suoi
effetti collaterali. Purtroppo nessuno sapeva quanto fossero gravi gli effetti
collaterali, perché l’azienda non l’aveva rivelato, neanche alle agenzie di
controllo. Questo è stato possibile perché secondo la regolamentazione è
obbligatorio informare le agenzie di controllo solo degli effetti collaterali
emersi dagli studi sull’uso specifico per il quale si è chiesta la licenza. E
dato che per i bambini la paroxetina era usata offlabel, la Gsk non era
obbligata a comunicare a nessuno le sue scoperte. Si sospettava da tempo che la
paroxetina potesse aumentare il rischio di suicidio, anche se questo effetto
collaterale è difficile da verificare. Nel febbraio del 2003 la Gsk aveva
mandato spontaneamente all’Mhra una relazione informativa sul rischio di
suicidio provocato dalla paroxetina. Il rapporto era basato sui risultati di
alcune analisi effettuate nel 2002 sui dati negativi emersi da test che
l’azienda aveva condotto 10 anni prima. Secondo la relazione non c’era nessun
aumento del rischio di suicidio. Ma era falsata. All’epoca non si sapeva che in
realtà i dati relativi ai bambini erano stati mescolati con quelli di un gran
numero di adulti.
Nel 2003 la Gsk partecipò a una riunione con l’Mhra per
discutere un’altra questione riguardante la paroxetina. Alla fine dell’incontro,
i suoi rappresentanti presentarono un documento in cui si diceva che l’azienda
aveva intenzione di chiedere un’autorizzazione specifica per l’uso della
paroxetina nei bambini e accennava anche al fatto che l’Mhra avrebbe potuto
tener conto della possibilità di un maggior rischio di suicidio tra i bambini
depressi che assumevano il farmaco. Si trattava di un effetto collaterale di
vitale importanza, comunicato informalmente e con enorme ritardo attraverso un
canale inappropriato. Anche se i dati erano stati consegnati alle persone
sbagliate, il personale dell’Mhra presente all’incontro ebbe il buon senso di
capire che si trattava di un’informazione importante. Si misero subito
all’opera, ordinarono delle analisi e nel giro di un mese mandarono una lettera
a tutti i medici consigliando di non prescrivere la paroxetina a pazienti al di
sotto dei 18 anni.
Com’è possibile che il sistema per ottenere i dati dalle aziende
sia così inefficiente da permettergli di tenere nascoste informazioni così
importanti su un farmaco? È possibile perché la normativa contiene scappatoie
assurde ed è preoccupante vedere come la Gsk abbia saputo sfruttarle. La
conclusione dell’inchiesta, pubblicata nel 2008, era che la Gsk aveva agito in
modo immorale e pericoloso per i bambini di tutto il mondo, ma le leggi
britanniche erano così lacunose che l’azienda non poteva essere accusata di
nulla. Dopo questo episodio, l’Mhra e l’Unione europea hanno cambiato alcune
regole, che però sono ancora inadeguate. Hanno imposto alle aziende di rivelare
i dati sulla sicurezza di un farmaco indipendentemente dalla richiesta di
commercializzazione, ma gli studi condotti fuori dell’Ue restano esclusi da
quest’obbligo. Alcuni dei test compiuti dalla Gsk sono stati in parte
pubblicati, ma questo ovviamente non è sufficiente, perché sappiamo già che
sono falsati. E abbiamo bisogno di tutte le informazioni anche per un motivo
più semplice: i segnali di pericolosità sono spesso deboli e difficili da
individuare. Nel caso della paroxetina la verità è emersa solo quando i dati
negativi di tutti i test sono stati analizzati insieme.
Sistema lacunoso
Questo ci porta a parlare del secondo difetto evidente del sistema attuale: i
risultati dei test vengono consegnati in segreto alle agenzie di controllo, che
devono prendere una decisione. Ma la scienza non dovrebbe funzionare così: le
sue scoperte sono affidabili solo quando tutti rendono pubbliche le loro
ricerche, spiegano come fanno a sapere che qualcosa è efficace e sicuro,
condividono metodi e risultati e consentono agli altri di decidere se sono
d’accordo sul modo in cui quei dati sono stati elaborati e analizzati. Invece
nell’ambito della sicurezza dei farmaci tutto avviene a porte chiuse, perché
così hanno deciso le aziende farmaceutiche. Perciò il compito più importante
della medicina viene svolto in segreto. E neanche le agenzie di controllo sono infallibili,
come ora vedremo.
Il rosiglitazone fu messo in commercio nel 1999. Dopo circa un
anno che era sul mercato, il dottor John Buse dell’università del North
Carolina parlò in due convegni accademici del rischio che il farmaco facesse
aumentare i problemi cardiaci. La Gsk, produttrice del medicinale, contattò
direttamente Buse nel tentativo di metterlo a tacere, poi si rivolse al suo
capo dipartimento. Nel 2007 una relazione della commissione finanze del senato
statunitense parlava di “intimidazione” nel caso di Buse.
Ma quello che preoccupa di più sono i dati sull’efficaciae sulla
sicurezza. Nel 2003 l’ufficio di Uppsala dell’Organizzazione mondiale della
sanità (Oms), che si occupa del monitoraggio dei farmaci, contattò la Gsk a
proposito di un numero insolitamente alto di rapporti che associavano il
rosigli-tazone ai problemi cardiaci. La Gsk condusse due meta-analisi interne
dei suoi dati nel loos e nel zoo6, che dimostrarono la fondatezza del rischio.
Ma anche se l’azienda e la Food
and drugs administration statunitense conoscevano i risultati,
nessuna delle due fece una dichiarazione ufficiale, e non furono pubblicati
fino al 2008.
Durante quel periodo, molti pazienti hanno continuato ad
assumere la sostanza, ma né loro né i medici hanno saputo niente di questo
problema fino al 2007, quando il cardiologo Steve Nissen e i suoi colleghi
hanno pubblicato la loro analisi, dimostrando che per i pazienti trattati con
il rosiglitazone il rischio di malattie cardiache aumentava del 43 per cento.
Dato che le persone affette da diabete rischiano già di avere complicazioni
cardiache, e il motivo principale per cui si cura il diabete è proprio quello
di ridurre questo rischio, la scoperta ha fatto scalpore. I risultati di Nissen
sono stati confermati da studi successivi e nel toro il farmaco è stato
ritirato dal commercio o comunque il suo uso è stato limitato in tutto il
mondo.
Ora, il punto non è che il medicinale avrebbe dovuto essere
ritirato prima. Per quanto perverso possa sembrare, infatti, i medici a volte
ricorrono a farmaci di qualità inferiore come ultima risorsa. Per esempio, un
paziente può reagire male a un farmaco particolarmente efficace e deve smettere
di assumerlo. Quando si verificano questi casi, a volte vale la pena provare un
medicinale meno efficace, che è sempre meglio di niente. Il problema è che
tutte queste discussioni avvenivano mentre i dati erano tenuti sotto chiave e
potevano essere visti solo dalle agenzie di controllo. Anzi, Nissen aveva
potuto fare la sua analisi solo grazie all’insolita sentenza di un tribunale.
Nel 2004, quando si era saputo che la Gsk aveva tenuto segreti i dati sui gravi
effetti collaterali della paroxetina nei bambini, il suo comportamento
scorretto aveva dato origine a una causa civile per frode, alla fine della
quale l’azienda, oltre a pagare i danni, aveva dovuto impegnarsi a pubblicare i
risultati dei suoi test clinici su un sito web accessibile al pubblico.
Nissen aveva analizzato i dati sul rosi-glitazone e aveva fatto
una scoperta allarmante di cui aveva informato i medici, cosa che l’agenzia di
controllo non aveva mai fatto pur essendo in possesso dei dati da anni. Se
queste informazioni fossero state accessibili fin dall’inizio, l’agenzia forse
sarebbe stata più cauta nella decisione da prendere, ma in questo modo medici e
pazienti avrebbero potuto non essere d’accordo con lei e fare una scelta
informata.
È per questo che tutti i risultati dei test clinici dovrebbero
essere accessibili. I dati mancanti danneggiano tutti. Se non si effettuano
test seri, se i risultati negativi vengono tenuti nascosti, non possiamo sapere
quali sono i veri effetti dei farmaci che usiamo. In medicina la necessità
delle prove non è una questione accademica astratta. Quando ci forniscono dati
falsati, possiamo prendere decisioni sbagliate e infliggere sofferenze inutili,
se non addirittura la morte, a persone come noi.
L’AUTORE
Ben Goldacre è un medico britannico. Questo articolo è un estratto, adattato,
del suo ultimo libro, Bad
Pharma, che sarà pubblicato in Italia da Mondadori nella primavera
del 2013.
Fonte: Internazionale
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