Rifugiato in Francia dal 2015 dopo un soggiorno in una prigione tedesca, una fuga attraverso i Paesi bassi e 15 mesi di esilio in mare. Sulla testa del fondatore di Sea Shepered pende un mandato di cattura dell’ Interpol, richiesto dal Giappone e dalla Costa Rica.
Poco locuace e dalle maniere ruvide Watson sa diventare un ottimo comunicatore quando si tratta di difendere quelli che lui chiama “i suoi clienti”: balene , foche, lontre, squali e pesci tutti decimati dalla pesca intensiva. “Abbiamo già fatto sparire il 90 % dei pesci e perso il 30% dell’ossigeno prodotto dal fitoplancton” afferma Watson.
Watson è cresciuto in un piccolo villaggio di pescatori nel New Brunswick, in Canada, parlando dei momenti fondamentali della sua vita, gli piace rievocare due episodo. Innanzitutto quando da bambino si mise a distruggere le trappole piazzate dai cacciatori per catturare i castori, poi, nel 1975 quando guardò negli o cchi un cadolio ucciso dalla flotta sovietica, due anni dopo lascio Greenpeace e fondò la sea shepered conservation society.
Il primo scontro avvenne nel 1980, quando la baleniera Serra fu affondata nel porto di lisbona. Da allora Sea shepered si vanta di avere affondato dieci imbarcazioni, salvato decine di migliaia di balene suscitando le ire del Giappone e di altri paesi.
Watson è riocercato dalla Costa Rica per ave fatto rovesciare un peschereccio impegnato nello shark finning, la pratica illegale di tagliare le pinne degli squali vivi.
A 65 anni, paul Watson non si lamenta troppo della sa permanenza forzata sulla terraferma, ufficiosamente sotto la protezione delle autorità francesci: “sono stato in mare per cinquant’anni” costretto in rada, ma sempre con l’arpione in mano “se tenendomi a terra pensano di fermare sea shepered si sbagliano”.
Le persone non si rendono conto della gravità della situazione , o meglio, se ne rendono conto ma se ne fregano” un po’ come suo padre che “sapeva benissimo che doveva smettere di fumare ma non lo ha fatto ed è morto di cancro ai polmoni”.
Allora perché lottare?
Un fremito lo scuote: “la domanda non è se vinceremo o meno la battaglia o se il mondo sopravviverà, ci battiamo perché è l’unica cosa giusta da fare.
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